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Trionfando sulla paura

Su come un piccolo villaggio palestinese sta resistendo all’occupazione

Farkha è un piccolo villaggio palestinese di circa 1800 abitanti, situato a un’ora di macchina a Sud di Nablis, una città con una ricca e profonda storia di resistenza partigiana contro le forze d’occupazione. Dal 7 Ottobre, quasi quotidianamente, avvengono incursioni nei campi nella periferia della città dove l’esercito di occupazione uccide i civili in maniera casuale. In questi campi ci sono diversi gruppi più piccoli che rispondono alla violenza coloniale dell’invasore sui civili, nei campi, con la resistenza armata. Ma, vista la difficoltà nel reperire qualunque tipo di arma per i gruppi di miliziani più piccoli nel contesto urbano, tale tipo di resistenza è estremamente limitata. Nelle aree rurali della Cisgiordania, in particolare, la resistenza armata risulta praticamente inesistente ed il popolo necessita di trovare nuove vie e modi per lottare contro l’occupazione della loro terra.


Dopo le azioni del 7 Ottobre da parte di diversi gruppi palestinesi, la situazione economica è peggiorata massivamente per i palestinesi in Cisgiordania. Da allora gli attacchi e le uccisioni delle forze d’occupazione nelle città sono aumentate, ma si è anche rafforzata la dipendenza economica tra i posti di lavoro israeliani e i lavoratori palestinesi che ci lavorano. Molti palestinesi hanno perso il loro lavoro negli insediamenti illegali in Cisgiordania e nelle aree del ’48 (i territori concessi ad Israele dalla prima risoluzione ONU, e successiva Nakba, nel 1948) a causa del peggioramento della situazione ai checkpoint, della situazione pericolosa nelle strade a causa degli attacchi dei coloni armati e del diretto licenziamento di lavoratori e lavoratrici , causando loro la perdita di entrate economiche. Questa occupazione non mira solamente ad intensificare la presenza militare e gli attacchi dei coloni in Cisgiordania, ma anche a rendere i palestinesi dipendenti dall’economia israeliana, creando così un nuovo strumento di controllo coloniale nella terra palestinese.


Il piccolo villaggio di Farkha ha trovato la propria strada per combattere la dipendenza dal mercato israeliano e dai suoi produttori. Nonostante il villaggio venga costantemente minacciato da coloni armati, dalla complessa situazione economica e dal collaborazionismo di Al-Fatah (Autorità Palestinese) con lo Stato colonialista di Israele, quasi ogni anno riescono comunque ad organizzare un festival, nato negli anni ’80, che porta dozzine di internazionalisti dall’Europa ed altri Paesi, a lavorare assieme alle ed ai giovani locali su progetti nel villaggio, o nelle sue vicinanze, ed a scambiarsi esperienze, conoscenze e cultura. Noi, come Lêgerîn, abbiamo avuto l’opportunità d’intervistare Mustafa Hammad, sindaco comunista del villaggio, e Maya Akhel, una contadina locale che lavora in un ufficio legale a Salfit. Questo è ciò che avevano da dire riguardo alla situazione nel villaggio, la Cisgiordania ed ai loro modi per resistere.


INTERVISTA CON MAYA AKHEL


Come ti chiami, quanti anni hai e qual è la tua professione?

Mi chiamo Maya Akhel, ho 38 anni e lavoro come avvocata nei territori delle aree del ’48 (Israele) e negli insediamenti, e anche come contadina in questo villaggio.


Come stai oggi?

Personalmente sto bene ma sento un’immensa tristezza per la situazione drammatica a Gaza e nell’intera Palestina. Si vedono continuamente immagini orribili sui social e sui notiziari; ci si sente senza speranza. Si arriva ad un punto in cui si spera che i giorni trascorrano in fretta e si è semplicemente grati di vedere un'altra mattina.

 

Qual’è il tuo legame con questo villaggio e com’è la tua situazione lavorativa al momento? Devi viaggiare molto?

Con l’inizio dell’offensiva ad Ottobre, l’ufficio legale a Salfit ha dovuto chiudere perché la situazione sulle strade era diventata troppo pericolosa ed i rischi sono alti per i pendolari.


È diventato addirittura più difficile e pericoloso per le avvocate e gli avvocati che vivono all'interno di “Israele” viaggiare verso l'ufficio.


Io stessa ho sempre avuto bisogno di visitare città come Nablis, Jenin e Tulkarem per incontrare le lavoratrici, i lavoratori e le loro famiglie. Anche prima era rischioso, ma adesso è praticamente impossibile. Ogni giorno le forze di difesa israeliane (IDF) compiono incursioni in alcune zone di queste città, bloccando le strade che portano ad essa per ore o addirittura giorni. Entrano, distruggono le strade, uccidono qualcuno e fanno esplodere delle case. Vanno e vengono a loro piacimento.


Ma vi è anche il pericolo dei coloni armati che lanciano pietre contro le auto ed i taxi; talvolta arrivano addirittura a sparare dalle colline su cui rivendicano i loro insediamenti.


Come sta gestendo la situazione la tua famiglia?

È difficile. Anche mio fratello più piccolo lavora come contadino nel villaggio ma è diventato difficile ricevere risorse dall’esterno del villaggio. Siamo davvero fortunati, perché il nostro villaggio è praticamente autosufficiente, ma molti non lo sono.


Mia sorella lavora in un ospedale a Ramallah ed anche per lei è molto pericoloso andare al lavoro, visto l’alto rischio di essere attaccati dai coloni. Inoltre il prezzo di moltissime cose è salito e ciò include i taxi, quindi è diventato troppo costoso il viaggio da casa all’ospedale dove lavora.


Quindi mia sorella ha iniziato a coltivare vegetali nel suo orto per poi poterli rivendere in diverse occasioni.


Qual’è l’aspetto più evidente ed angosciante dell’occupazione sionista nella tua vita quotidiana?

Non ho paura di niente! Quando esco di casa per andare al lavoro, o da qualunque altra parte, lo faccio con la consapevolezza che potrei non tornare. Questo non vale solo per me, ma per ogni palestinese. Viviamo ogni giorno senza la certezza di quello successivo.


Quando esco dal villaggio, quando viaggio per le strade verso altre città, mi sento sempre come se fosse una piccola vittoria contro l’occupazione. Vogliono renderci impauriti di vivere e

spostarci nella nostra stessa terra, ma noi continueremo a farlo pur sapendo che forse non torneremo dalle nostre famiglie. Supero i confini che hanno imposto sulla nostra terra e così vinco la paura dentro di me che vogliono instillare in tutti noi.


Quale parte dell’occupazione ha un maggiore impatto su di te in quanto donna, che però ha un impatto minore o nullo sugli uomini?

Se noi, in quanto donne, veniamo fermate ad un punto di controllo o messe in carcere per qualunque motivo, la nostra situazione e ciò che ci può accadere risultano più incerti ed imprevedibili rispetto agli uomini.


Come valuti la situazione in Cisgiordania al momento e com’è cambiata rispetto a prima del 7 Ottobre?

La situazione economica in Cisgiordania è peggiorata: tutto è più costoso, molte persone hanno perso il loro lavoro negli insediamenti ed in “Israele” e siamo più dipendenti che mai dalle merci e dai prezzi delle risorse israeliane. Di conseguenza molte persone, soprattutto nelle aree rurali, sono costrette a pensare a come coltivare il proprio cibo e diventare, almeno in parte, autosufficienti. Per molte persone, però, questa non è una novità. Coltivare la propria terra, o il proprio orto, è stato come noi palestinesi abbiamo sempre vissuto, e di recente siamo stati costretti a riscoprire queste tradizioni, che sono anche una forma di resistenza.


Facendo così i produttori locali diventano più forti grazie all’aumento della domanda riguardante i prodotti locali. Vi è una chiara tendenza ad essere meno dipendenti dai produttori israeliani.

Molte persone si sentono frustrate e ciò si è tramutato in un fenomeno sociale, vista l’assenza di lavoro e di prospettiva economica e più in generale riguardo a qualunque cosa.


Come valuti il ruolo di Al-Fatah (GP) nell’occupazione, specialmente il loro rapporto con lo stato sionista ed altri gruppi di milizie?

Dopotutto gli unici gruppi che praticano qualche forma di resistenza e che effettivamente danneggiano l’occupazione sono le piccole milizie come “La Fossa dei Leoni” o il PFLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina). Al-Fatah non è altro che una parte dell’occupazione ed è un’estensione dello stato di Israele all’interno della nazione palestinese. Sfortunatamente queste forme di resistenza avvengono solo nei campi o nelle grandi città, non in aree rurali come questa. Semplicemente non abbiamo i mezzi per combattere, ma dobbiamo. Dobbiamo combattere per la nostra libertà.


Quali pensi possano essere i mezzi di autodifesa di un piccolo villaggio di fronte a questi attacchi?

Qui nel villaggio, per esempio, abbiamo delle chat di gruppo, dove ci informiamo a vicenda e possiamo chiamare a raccolta altri abitanti in casi di attacco da parte dei coloni, oppure quando tentano di costruire strade illegali vicino al villaggio. In questi casi alcune persone del villaggio tenteranno di confrontarli armati di bastoni e pietre oppure disarmati, mentre la maggior parte dei coloni è armata e protetta dall’esercito quindi non c’è molto che si possa fare. Ma quale altra scelta abbiamo per difenderci? Gli unici armati sono i membri del PA (Autorità Palestinese) ma, ovviamente, non le useranno mai contro i coloni e l’IDF. Al livello più alto delle PA ci sono persone a cui non importa del loro popolo; a loro interessa solo capire come sfruttare e tratte profitto dai rapporti con l’occupazione Fin da quando il PA fu istituito negli anni ’90 abbiamo lentamente imparato che loro non lavorano in accordo alla volontà del popolo palestinese, bensì secondo gli interessi di Israele e USA.


Cambiamo un attimo tema; abbiamo già parlato un po' del movimento curdo e della loro lotta. Abdullah Öcalan, uno dei membri fondatori del PKK, ha analizzato che una società non può essere libera senza la liberazione delle donne. Come definirebbe il ruolo delle donne palestinesi all’interno della più ampia lotta anti-coloniale in Palestina?

Noi, in quanto donne, siamo costrette a lavorare su ogni opportunità che abbiamo per sostenere le nostre famiglie e noi stesse, oggi più che mai. In questo contesto le donne dovranno e vorranno avere un ruolo cruciale nella resistenza e nella lotta contro l’occupazione. Una delle cose che ci proibisce un ruolo più attivo nella lotta è la mancanza di armi e gli unici palestinesi con una grande riserva di armi sono gli stessi che tradiscono il loro popolo.


Quali sono i tuoi pensieri riguardo al futuro?

Dobbiamo lottare. Dobbiamo continuare questa lotta fino a che non saremo libere e liberi, ma sfortunatamente le basi su cui costruire la lotta sono disastrose.


Cosa faresti per prima cosa se la Palestina diventasse libera?

Aha! Ogni palestinese ti darà la stessa risposta: andare in una delle nostre magnifiche spiagge e nuotare nel mare. Questo è il nostro mare, questa è la nostra terra e queste sono le nostre spiagge ma

non ci possiamo nemmeno avvicinare, tantomeno nuotare.


INTERVISTA CON MUSTAFA HAMMAD

Come ti chiami e quanti anni hai?

Mi chiamo Mustafa ed ho 34 anni.


Come stai?

Bene, grazie.


Puoi descrivere la tua situazione abitativa all’interno del villaggio?

Dunque, i miei genitori ed il resto della mia famiglia vivono a Tulkarem mentre io sto qui, nel villaggio.


Qual è il tuo ruolo nel villaggio?

Ecco, io solitamente lavoro nei cantieri del villaggio e, assieme a mio fratello, sono nell’industria del ferro. Inoltre, sono il sindaco del villaggio e parte del consiglio cittadino, dove rappresento il

Partito Popolare Palestinese (PPP) ed i nostri valori in quanto comunisti.


Cosa puoi raccontarci riguardo Farkha?

Allora, Farkha è un piccolo villaggio di circa 1800 abitanti, vicino a Salfit in Cisgiordania. Il villaggio è noto per il suo festival annuale, dove centinaia di giovani locali e internazionaliste si riuniscono per fare volontariato nel villaggio e nelle sue vicinanze. Questo sentimento internazionalista e il fatto di vedere il supporto per il nostro piccolo villaggio e la Palestina da tutto il mondo, ha profondamente influenzato il resto degli abitanti e li ha portati a sviluppare una maggiore coscienza politica.


Altri aspetti fondamentali nell’identità del villaggio sono l’autosufficienza e l’agricoltura ecologica, non solo nei campi intorno al villaggio ma anche in quasi tutti gli orti e in tutte le case di Farkha.


Ad oggi, come valuteresti la situazione generale del villaggio?

Abbiamo avuto diversi problemi economici dal 7 Ottobre. Molte cittadine e cittadini hanno perso il lavoro ed ora faticano a sopravvivere. Fortunatamente, siamo riusciti a creare un sistema dove le persone che non hanno un lavoro non devono pagare per acqua, gas e simili; oppure possono chiedere dei prestiti. Però queste sono solo soluzioni temporanee.


Noi siamo un villaggio dove si comunica molto l’uno con l’altro e ci si aiuta a vicenda; in questo modo coloro che non possiedono molto non devono avere paura della fame o di non avere accesso ai beni di prima necessità. Ci si aiuta in ogni modo possibile e così attraversiamo questa gravissima crisi; inoltre il fatto che ogni casa sia dotata di un orto rende molto più facile soddisfare i bisogni delle persone durante questa crisi economica, e ci rende meno dipendenti dagli elementi economici dell’occupazione.


Quali sono alcune delle minacce più concrete che il villaggio deve affrontare da parte dei coloni o dell’esercito di occupazione?

I coloni degli insediamenti vicini non stanno solo occupando sempre più terra intorno al villaggio, distruggendo i materiali nei cantieri dove tentiamo di costruire delle strade, minacciando i lavoratori che lavorano nei propri campi, costruendo strade abusive intorno al villaggio o distruggendo i nostri escavatori, ma agendo così mirano soprattutto ad infondere un’emozione nelle nostre menti: la paura. La paura che nella nostra stessa terra non dovremmo spostarci ma semplicemente andarcene. La paura che si possa essere feriti o uccisi semplicemente guidando per la strada. Ad un certo punto questa paura diventa intrinseca del nostro stesso essere, tanto che non devono più minacciarci direttamente mentre costruiscono le loro strade ed i loro insediamenti visto che oramai sono riusciti a radicare questo terrore in noi. Questo è ciò contro cui stiamo lottando e che dobbiamo sconfiggere.


Per esempio, capita che ogni tanto diffondano una notizia falsa riguardo al fatto di aver colpito o picchiato alcuni lavoratori e lavoratrici nei campi, e coloro che lavorano con loro, o qualcuno del PA, diffondono questa menzogna fra la gente. Oppure, una volta gli ufficiali del PA mi hanno chiamato per dirmi che alcuni coloni avrebbero potuto rubare delle terre con degli ulivi, e così tentano di infondere costantemente della paura in noi.


Ci vogliono spaventati ma questa è la nostra terra e dovremmo lottare per essa. Nelle nostre menti e con le nostre mani dobbiamo lottare per la nostra terra. La paura nelle nostre menti è ciò che ci impedisce di reagire.


Quali sono alcuni dei progetti in corso dei coloni attorno al villaggio?

Stanno costruendo nuove strade per connettersi con altri insediamenti e di conseguenza sottrarci la nostra terra pezzo dopo pezzo. Queste strade sarebbero abusive anche secondo la legge israeliana ma, ovviamente, sono in linea con l’ideologia sionista.


Queste strade stanno attraversando e distruggendo le nostre terre coltivabili e quelle destinate all’olio d’oliva, ma non abbiamo i mezzi per resistere al furto della nostra terra perché rischieremmo di venire sparati dai coloni o dall’IDF.


Riguardo al festival: Com’è nato il Farkha Festival?

Negli anni ’80 c’era un festival simile a Nassrah (in Israele) e volevano replicare l’idea nel villaggio. Abbiamo deciso di farlo a Farkha perché molta gente di qui simpatizza con il PPP ed in generale con le comuniste e i comunisti qui in Cisgiordania. Quindi un festival che celebrasse l’internazionalismo ed il supporto internazionale per la Palestina era qualcosa che volevamo fare anche qui.


Che ruolo gioca l’internazionalismo nel festival?

In quanto persone e comunisti di questo villaggio crediamo che sia importante avere questo scambio con altre culture e altri popoli, in modo da poter imparare gli uni dagli altri.


In Europa, i sionisti e i media, mostrano un’immagine sbagliata del popolo palestinese e della situazione in Palestina, quindi per noi è un’importante opportunità per mostrare ad alcune persone dall’Europa com’è realmente l’occupazione, per parlare ed entrare in contatto con persone che convivono quotidianamente con l’occupazione. È molto più impressionante vederlo con i tuoi occhi che semplicemente su qualche servizio. Vogliamo inoltre, che le internazionaliste e gli internazionalisti tornino a casa, che ne parlino e che creino una maggiore consapevolezza di ciò che sta accadendo. È la nostra terra che viene rubata e noi stiamo solo cercando di difenderla. Il mondo intero ci definisce terroristi, ma come possiamo essere terroristi quando stiamo solo difendendo la nostra terra che viene rubata e lottiamo contro l'occupazione?


Questo festival, come ha influenzato la popolazione locale?

Positivamente, ovviamente. Durante i primi festival c’erano solo uomini ma, con il tempo e gli esempi, siamo riusciti a superare questo antico modo di pensare e sempre più donne, internazionaliste e locali, si sono unite per lavorare insieme. Questioni come il ruolo delle donne nella società vengono discusse giornalmente fra la gente, non solo durante il festival; e questo ha influenzato profondamente gli abitanti. Tutte le persone del villaggio accolgono le internazionaliste e gli internazionalisti a braccia aperte e con ammirazione perché hanno visto il contributo dato da loro nei progetti del villaggio nel corso degli anni.


L'anno scorso abbiamo visto diverse bandiere delle YPG, delle YPJ e anche del PKK che venivano celebrate ed appese durante il festival. Cosa pensi che colleghi la lotta del popolo curdo con la lotta del popolo palestinese?

Entrambi i popoli vedono le loro terre occupate ed è nostro dovere combattere contro l’occupazione così come è dovere del popolo curdo lottare contro i suoi oppressori, quindi la colonizzazione collega profondamente le nostre genti. Sfortunatamente, molte persone non conoscono niente della lotta curda, e la maggior parte conosce a malapena i fattori che hanno portato alla nostra di occupazione; quindi c’è una grande necessità di maggiori informazioni e scambi tra i nostri popoli e le nostre lotte.


In quanto comunista, per me è un dovere parlare contro ogni occupazione nel mondo e generare consapevolezza riguardo ciò. Noi non crediamo nei confini fra i nostri paesi. Sono la nostra terra e la nostra lotta per difenderla ad unirci.


Che cosa desidereresti dalla connessione fra la lotta palestinese e quella curda?

Ci serve uno scambio maggiore e dobbiamo imparare di più l’uno dall’altro. Dobbiamo capirci maggiormente e più a fondo, dobbiamo lavorare insieme perché le nostre lotte e le nostre vite sotto occupazione ci uniscono. Vogliamo sapere come i curdi combattono, vivono e resistono. Possiamo imparare moltissimo da loro e loro possono imparare da noi.


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